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28/11/2016

I grandi della musica napoletana : Carosone


Carosone è stato un inimitabile della canzone napoletana grazie anche alla sua formidabile orchestra con il "matto" batterista Gegè Di Giacomo. 
 Nel 1949 Gegè Di Giacomo seppe che il giovane pianista Renato Carosone era stato invitato a formare un trio per un nuovo locale a Napoli, lo Shaker Club
La data dell'inaugurazione era prevista per il 28 ottobre. 
 Gegè si presentò all'hotel Miramare, dove Carosone stava provando con il chitarrista olandese Peter Van Wood, senza batteria, dicendo che l'aveva portata a cromare
Carosone e Van Wood, contrariati, cominciarono a dubitare della validità di Gegè, che intuì tutto e per fugare ogni dubbio improvvisò una batteria casalinga: una sedia di legno, un vassoio, tre bicchieri di diversa grandezza e tonalità, due pioli, un fischietto
Nacque così il Trio Carosone, che avrebbe segnato una svolta nella storia della canzone napoletana.
cronologia.leonardo.it

RENATO CAROSONE - BIOGRAFIA DI UOMINI ILLUSTRI

‘Sono nato il 3 gennaio 1920….Dire quando sono nato però non risolve il problema. Adesso dovrei raccontarvi la mia infanzia, i miei primi anni in vico dei Tornieri, for’ a marina, a due passi da piazza Mercato, cuore di una Napoli stracciona eppure nobilissima’.

Con queste parole Renato Carosone, uno dei più noti autori ed interpreti della canzone napoletana, iniziava il racconto della sua vita nell’autobiografia ‘Un Americano a Napoli’, pubblicata poco prima della sua morte.
Il cantante che raggiunse il successo con la notissima canzone ‘Tu vuò fa l’Americano’ e con altre notissime melodie, visse appunto in questo vicolo della Napoli antica, nel quartiere Pendino, che prende il nome dalla presenza in loco di tornitori di legno e metalli. Da questa strada, il cui tracciato originario fu in parte alterato dai lavori del Risanamento, Renato Carosone iniziò la sua scalata verso il successo.

Primo di tre fratelli, all’età di sette anni fu avviato dal padre, impresario al Teatro Mercadante, allo studio del pianoforte, sotto la guida del maestro Albanese, di Vincenzo Romaniello e di Celeste Capuana. Nel 1935, all’età di quindici anni, fu scritturato come pianista commentatore all’Opera dei Pupi di don Ciro Perna e due anni dopo si diplomò al conservatorio di San Pietro a Majella.
Subito dopo lasciò Napoli e si imbarcò per l’Africa in tournee con una commedia di varietà; giunto a Massaua eseguì in un ristorante frequentato da camionisti italiani il repertorio classico napoletano, ma gli avventori, tutti del nord Italia, non lo apprezzarono e la compagnia fallì poco dopo e tutti i componenti rientrarono in patria. Carosone scelse però di restare in Africa, fu ad Asmara e poi ad Addis Abeba per lavoro, partecipò quindi alla guerra sul fronte somalo-britannico e riprese poi a suonare il pianoforte in una formazione jazz in un club inglese.

I primi successi lo invogliarono, dopo nove anni, a tornare in Italia ove, dopo qualche anno di gavetta, fu chiamato a Napoli per l’inaugurazione del nuovo club Shaker. Qui nacque il trio con Carosone, Petr Wan Wood e Gegè Di Giacomo, che ottenne subito un successo clamoroso; una sera, grazie alla inconsueta richiesta di un commerciante di tessuti presente tra il pubblico, il trio eseguì con ritmo più veloce ‘Lo sceicco’ e nacque così il loro stile inconfondibile.
Il successo fu consacrato nel 1955 con ‘Maruzzella’, la canzone ispiratagli dalla moglie Lita, che divenne anche un film, e poi dal sodalizio con Nisa, nome d’arte di Nicola Salerno, da cui nacquero pezzi celebri come ‘Buonanotte’, ‘O suspiro’, ‘Tu vuò fa l’americano’ e ‘Torero’, quest’ultima tradotta in dodici lingue e in testa nelle classifiche statunitensi per due settimane. Seguirono poi ‘O saracino, Pigliate nà pastiglia, Caravan Petrol e tante altre melodie immortali, diventate il simbolo della canzone napoletana del novecento.

Carosone inventò una nuova musica napoletana, moderna e spensierata, ironica, caricaturale e ricca del secolare patrimonio della sua tradizione. Alla sua straordinaria inventiva aggiunse una preparazione professionale perfetta e invidiabile, grazie alla quale suonava magicamente il pianoforte anche con le palle da tennis. Le sue canzoni diventarono così famose nel mondo intero, alcune star le cantarono in film di successo, e i suoi concerti-spettacolo mandavano il pubblico in delirio.
Al culmine della popolarità, nel 1960, Carosone decise improvvisamente di ritirarsi dalle scene, che volle abbandonare nel momento di maggiore popolarità, lasciando allibiti i suoi fan: tornerà ad esibirsi solo per poche volte, per la prima volta nel 1975 alla ‘Bussola’ di Viareggio, e poi solo in occasione di serate di gala in suo onore, del festival di Sanremo a cui partecipò nel 1989, e di applauditissime tournee in giro per il mondo.

La sua Napoli lo applaudì per l’ultima volta in occasione della festa di Capodanno nel 1998; poi, lontano dalle scene, Carosone trascorse gli ultimi anni di vita dedicandosi alla pittura, con quadri originali e bellissimi che gli hanno regalato non poche soddisfazioni. Scrisse anche una biografia, ripercorrendo le tappe della sua vita e dei suoi successi, che fu pubblicata poco prima della sua morte, avvenuta a Roma all’età di ottant’anni.


Link di approfondimento :



27/11/2016

Amore e canzone classica napoletana : Te voglio bene assaje




Napoli ha un glorioso passato musicale tramite la sua canzone classica conosciuta nel mondo doveroso quindi un articolo in merito. La scelta del brano è stata difficile visto i numerosi capolavori ma alla fine ho deciso per una canzone d'amore :  
Te voglio bene assaje, dedicato alle amiche di Facebook (vedere la mia pagina ROMANTIC LOVE) ed alle lettrici dei miei blog.



it.wikipedia.org

Te voglio bene assaje



Te voglio bene assaje è una canzone in lingua napoletana composta nell'Ottocento e già cantata dalle massaie napoletane intorno al 1839.


Copertina della partitura della canzone
Te voglio bene assaje

Secondo molti critici musicali rappresenta l'atto di nascita della canzone d'autore moderna o comunque il passaggio dalla musica popolare alla canzone d'autore,[1][2] visto che è stato il primo brano musicale a partecipare alla festa di Piedigrotta nell'ambito della gara canora.
Il componimento scritto fu piuttosto lungo e la sua forza penetrativa nella massa di ascoltatori gli venne conferita dal ritornello accattivante e orecchiabile che concludeva ogni strofa:
« Nzomma, son'io lo fauzo?
Appila, siè maesta:
ca l'arta toia è chesta,
lo dico mmeretà.
Io iastemma' vurria
lo juorno ca t'amaie!
Te voglio bene assaje
e tu non pienze a me »

Storia

Sulla origine della canzone vi sono innumerevoli versioni. Secondo la più accreditata, il poeta Raffaele Sacco, di professione ottico e frequentatore dei salotti partenopei, scrisse la canzone dedicandola ad un'avvenente signora, con la quale avrebbe avuto una relazione. Secondo tale interpretazione, i versi farebbero riferimento ad una polemica scherzosa sulla presunta doppiezza del poeta e sul mancato matrimonio della donzella. Altri autori ritengono invece che il ritornello della canzone facesse parte della solida tradizione orale della musica napoletana, e che come tale venisse cantato negli ambienti popolari molto prima della sua inclusione nella composizione.

Per quanto riguarda la musica, una certa tradizione la assegna a Gaetano Donizetti, anche se nel 1839 costui era impegnato in altre opere e dall'anno precedente si trovava a Parigi. È certo, infatti, che dopo aver soggiornato a lungo a Napoli, mettendo in particolare in scena al Teatro San Carlo la prima della Lucia di Lammermoor, aveva lasciato la città nell'ottobre del 1838 in seguito alla morte della moglie e della figlia. Tali dati portano alcuni storici della musica, tra cui De Mura e De Rubertis, a ritenere che la musica sia stata probabilmente composta dal maestro Filippo Campanella, compagno e amico del Sacco.

Per quanto l'origine della canzone sia tuttora oggetto di discussione, è certo che essa ebbe immediatamente un enorme successo, dato che in pochi mesi furono vendute ben 180.000 copielle, ossia gli spartiti e le parole stampati e distribuiti su foglio. Inoltre per molte edizioni della Festa di Piedigrotta questa canzone fu intonata quasi ad inno ufficiale della musica napoletana. La risonanza della canzone fu tale che il giornalista Raffaele Tommasi, il 6 agosto 1840 sul settimanale letterario "Omnibus": "Sfido chiunque dei miei lettori a dare un passo, o a ficcarsi in un luogo dove il suo orecchio non sia ferito all'acuto suono di una canzone, che da non molto da noi introdottasi, trovasi sulle bocche di tutti, ed è venuta in sì gran fama da destar l'invidia dei più valenti compositori.". Il successo fu di dimensioni tali da suscitare anche commenti stizziti per l'ossessionante ubiquità della melodia, cantata in tutta la città. In una sua poesia del 1840, il barone Zezza scrisse:

...Da cinche mise, cànchero, matina, juorno e ssera, fanno sta tiritera... tutte li maramè Che siente addò te vuote? Che siente addò tu vaje? "Te voglio bene assaje e tu nun pienze a mme!"...

E un anonimo poeta scrisse salacemente: "Addio mia bella Napoli, fuggo da te lontano. Perché sì strano, tu mi dirai, perché? Perché son à stufo ormai di udir quella canzon, Te voglio bene assaje e tu nun pienze a mme!"[3]

Testo

(NAP) « 'Nzomma songh'io lo fauzo?
Appila, sié' maesta:
Ca ll'arta toja è chesta
Lo dico 'mmeretá.
Io jastemmá vorría
lo juorno che t'amaje!
Io te voglio bbene assaie
e tu nun pienze a mme

Pecché quanno me vide
te 'ngrife comm' 'a gatto?
Nenne' che t'aggio fatto
ca no mme puo' vedé?
Io t' 'aggio amato tanto,
si t'amo tu lo saie
Te voglio bene assaie
e tu nun pienze a me.

Ricordate lu juorno
Ca stive a me vicino
E te scorreano ‘nzine
Li lacreme accussì
Diciste a me "Nun chiagnere
Ca tu dd’o mio sarraje"
Io te voglio bbene assaie
e tu nun pienze a mme

La notte tutte dormono
ma io che vvuo' dormire
penzanno a nnenna mia
me sento ascemuli'
li quarte d'ora sonano
a uno, a ddoie, a ttre:
Io te voglio bbene assaie
e tu nun pienze a mme

Guardame 'nfaccia e vvide
comme songo arredutto
sicco peliento e brutto,
nennella mia pe' tte!
Cusuto affilo duppio
co' tte me vedarraie
Io te voglio bbene assaie
e tu nun pienze a mme

Quanno so' fatto cennere
tanno me chiagnarraie
sempe addimannarraje:
"Nennillo mio addo' sta?"
la fossa mia tu arape
e llà me truvarraie:
Io te voglio bbene assaie
e tu nun pienze a mme! »
(IT) « Insomma sarei io il falso?
sei maestra nel rimediare,
perché la tua specialità è questa
lo dico in verità.
Io vorrei maledire
il giorno che ti amai!
Io ti voglio tanto bene
e tu non pensi a me

Perché quando mi vedi
ti arruffi come un gatto
bambina, che ti ho fatto
che mi odi così?
Io ti ho tanto amata
e t'amo e tu lo sai
Io ti voglio tanto bene
e tu non pensi a me

Ricordati quel giorno
Che mi stavi vicino
E ti scorrevano sui seni
le lacrime e così
Dicesti a me "non piangere
Che un giorno sarai mio"
Io ti voglio tanto bene
e tu non pensi a me

Di notte tutti dormono
ma io che vuoi dormire
pensando alla mia piccola
mi sento di impazzire
I quarti d'ora suonano
all'una, alle due, alle tre..
Io ti voglio tanto bene
e tu non pensi a me

Guardami in faccia e vedi
Come sono ridotto
magro, sciatto e brutto
bambina mia per te!
Cucito a filo doppio
a te mi vedrai
Io ti voglio tanto bene
e tu non pensi a me

Quando sarò diventato cenere
allora mi piangerai
domanderai sempre
"Dov'è il mio piccolino?"
Apri la mia fossa
e mi troverai lì
Io ti voglio tanto bene
e tu non pensi a me »

Curiosità

Il motivo della canzone fu ampiamente utilizzato dal compositore norvegese Johan Svendsen per il suo "Norsk Kunstnerkarneval for orkester" ("Carnevale degli Artisti Norvegesi Op.14") del 1874.
Con l'orchestra di Pippo Barzizza il 25 agosto 1956, è Rino Loddo a lanciarla in Italia, nel corso della trasmissione radiofonica della Rai Sorella Radio, che fu irradiata in diretta nazionale.

Interpretazioni







it.wikipedia.org

Canzone classica napoletana



La canzone classica napoletana è un repertorio musicale che va dagli inizi dell'Ottocento all'immediato secondo dopoguerra. Definita epoca d'oro della canzone napoletana, la stessa vede tra gli autori e compositori importanti poeti e parolieri, per lo più napoletani, nonché illustri personalità della lirica che hanno tramandato nel tempo i brani del repertorio.
Tra i grandi interpreti non napoletani che hanno eseguito almeno una volta una brano della canzone classica vi sono: Beniamino Gigli, Giuseppe Di Stefano, Placido Domingo, José Carreras, Elvis Presley, Dean Martin, Andrea Bocelli, Claudio Villa, Al Bano, Lucio Dalla, Renato Zero, Domenico Modugno, Elton John, Paul McCartney, Luciano Pavarotti, Celine Dion e tanti altri.

Storia

Ottocento

Escludendo Villanelle e canti popolari precedenti al 1800, i quali ancora non avevano la struttura melodica e lirica tipica della canzone napoletana propriamente detta, molte fonti collocano la nascita della classica universalmente conosciuta al 1839 e al brano Te voglio bene assaje. Il testo fu scritto da Raffaele Sacco e musicato da Filippo Campanella, anche se si è in seguito diffusa una leggenda popolare che vorrebbe Gaetano Donizetti come autore. La canzone fu presentata il 7 settembre 1839 alla Festa di Piedigrotta.
Proprio le celebrazioni della Festa di Piedigrotta si dimostrarono negli anni l'occasione ideale per l'esibizione dei nuovi pezzi, i quali videro tra gli autori personalità come Salvatore di Giacomo, Libero Bovio, E.A. Mario, Ferdinando Russo, Ernesto Murolo. Con costoro si attribuisce al periodo che cade a cavallo tra Ottocento e Novecento, quello di epoca d'oro della canzone classica napoletana.[1] Persino Gabriele d'Annunzio si è cimentato nella stesura di un brano della canzone classica. Infatti si narra che egli scrisse i versi di A Vucchella (1904) dopo un'accesa discussione con Ferdinando Russo che scommetteva sull'incapacità del poeta pescarese di scrivere in lingua napoletana[2].
Tra le composizioni più rilevanti della canzone classica napoletana, appartenenti all'Ottocento, si ricordano:
La macchietta
Una modalità molto popolare di esecuzione della canzone napoletana, nata già verso la fine dell'Ottocento, fu la "macchietta". Il termine deriva dal modo di descrivere personaggi e situazioni come fosse in uno schizzo abbozzato in modo caricaturale. Fra gli autori ed interpreti di questo genere vanno ricordati Nicola Maldacea, Nino Taranto e Vittorio Marsiglia.
A dimostrazione del successo e dell'importanza della canzone napoletana ottocentesca, il brano Palummella zompa e vola (1873) fu addirittura proibita per i suoi evidenti contenuti sovversivi, poiché alludeva alla libertà. Per questo motivo, gli autori ne cambiarono il testo anche se il popolo napoletano continuò a cantarne l'originale versione.[2]

La prima metà del Novecento

Sulla scia del successo raggiunto nel XIX secolo, agli inizi del Novecento si annoverano altre importanti canzoni divenute anch'esse famose in tutto il mondo.
In questo arco temporale, infine, la canzone napoletana raggiunse il suo massimo spessore, giungendo in ogni parte del mondo e diffondendosi nelle culture musicali internazionali grazie anche alle interpretazioni eseguite dai maggiori tenori del tempo.

La seconda metà del Novecento

Il Secondo dopoguerra



La Seconda guerra mondiale segnò profondamente la città di Napoli ed anche la canzone non poté sfuggire alla tragicità degli eventi, Munasterio 'e Santa Chiara è la testimonianza più struggente di quel momento ma, come sempre, Napoli riesce anche a sorridere nei momenti più bui; Tammurriata nera fu l'esempio di come l'umorismo partenopeo fosse sempre pronto ad emergere, anche di fronte a fatti tragici.
Il pessimismo esistenziale di Luna rossa di Vincenzo De Crescenzo e Vian (ccà nun ce sta nisciuno, 1950) apre, però, una nuova stagione d'oro della canzone napoletana alla ricerca di una rigenerazione non solo musicale. Se Roberto Murolo diviene l'interprete per eccellenza della canzone tradizionale, Renato Carosone mette a disposizione le sue esperienze di pianista classico e di jazzista, fondendole con ritmi africani e americani e creando una forma di macchietta, ballabile e adeguata ai tempi. Tra i suoi maggiori successi si ricordano: Caravan Petrol, Tu vuò fa' l'americano, Io mammeta e tu, Maruzzella, 'O sarracino e tante altre.
Inoltre va annoverata un'altra importante canzone nata da uno dei più importanti parolieri, poeti ed attori cinematografici e teatrali del XX secolo: Malafemmena (1951), scritta e musicata da Totò.

 

Gli anni sessanta


In pieno novecento la canzone sopravvive grazie al ruolo primario del Festival di Napoli, che tra querelle e scandali riesce a imporre la sua canzone in tutta Italia prima ancora che si affermasse il Festival di Sanremo. Tra i protagonisti del Festival di Napoli ricordiamo i cantanti napoletani Sergio Bruni, Mario Abbate, Angela Luce, Giacomo Rondinella, Aurelio Fierro, Nunzio Gallo, Mario Trevi, Tony Astarita, Maria Paris, Mirna Doris e Mario Merola. A questi si affiancheranno cantanti provenienti dal Festival di Sanremo, come Domenico Modugno, Claudio Villa, Carla Boni, Wilma De Angelis e Ornella Vanoni, ed attori come Franco Franchi, Nino Taranto, Oreste Lionello e Renato Rascel.
La parabola storica della canzone napoletana termina nella seconda metà degli anni sessanta, quando il Festival entra in crisi (si conclude nel 1970) e la canzone perde ogni legame col suo retaggio classico divenendo espressione del sottoproletariato urbano. La fama di questo genere rimane immutata nonostante il passare del tempo, e tutti i cantanti affermati inseriscono regolarmente alcuni tra i pezzi più famosi nel loro repertorio seguendo le orme di Enrico Caruso e Beniamino Gigli. E proprio sull'esempio dei due grandi tenori, Bruno Venturini rileggerà in chiave lirica i più famosi brani napoletani dal 1800 al 1960, dando vita e continuità ad una significativa opera antologica sulla canzone classica napoletana.

Gli anni sessanta rappresentano il periodo d'oro del Festival della canzone napoletana, dal quale vengono lanciate canzoni come 'A pizza, Scapricciatiello, Guaglione e Lazzarella di Aurelio Fierro, Indifferentemente di Mario Trevi e Mario Abbate, Sciummo e 'O ritratto 'e Nanninella di Sergio Bruni, 'A bbonanema 'e ll'ammore di Nino Taranto, Cerasella di Gloria Christian, Tuppe tuppe mariscià di Maria Paris. Ma questa è anche l'epoca di fenomeni innovativi: Peppino di Capri opera una "fusion" fra melodia partenopea e ritmi di altre culture musicali, imponendosi all'attenzione di critici e pubblico; Peppino Gagliardi rompe gli schemi interpretativi della canzone napoletana; Roberto De Simone e la sua Nuova Compagnia di Canto Popolare non si limita a recuperare e valorizzare la musica folk tradizionale, ma l'arricchisce di elementi di musica colta.
In questo periodo le interpretazioni che più ebbero successo furono indubbiamente quelle di Modugno, di cui si ricordano numerose canzoni scritte e cantate in napoletano. Spicca su tutte Tu sì na cosa grande (1964), per la quale lo stesso autore pugliese scrisse la musica, mentre il testo appartiene a Gigli.

13/11/2016

Film e società : 7 minuti

7 minuti è un film italiano del 2016 diretto da Michele Placido. È ispirato a una storia realmente accaduta in Francia a Yssingeaux ed è tratto dall'omonimo testo teatrale di Stefano Massini. Si richiede alle lavoratrici di decidere se accettare la clausola del nuovo contratto che prevede la riduzione della pausa pranzo di 7 minuti. Tutte vorrebbero accettare all'istante ma, ripensandoci, 7 minuti per trecento operaie totalizzano 900 ore gratis al mese di lavoro per la nuova azienda francese. 
Questo non è marketing aggressivo, flessibilità o globalizzazione. 
Queste sono porcate studiate ad arte sulla pelle dei più deboli. 

Undici donne dovranno decidere per tutte le 300 della fabbrica ma dovranno farlo in mezz'ora con una posta in gioco altissima. Ottimo film ed ottima recitazione di un cast tutto al femminile.




mymovies.it

7 minuti (2016)


L'azienda tessile Varazzi è in procinto di siglare l'accordo che la salverà dalla chiusura immediata. I partner francesi sono pronti a concludere, ma all'ultimo momento consegnano alle undici componenti del consiglio di fabbrica una lettera che chiede loro di sacrificare sette minuti di intervallo al giorno. Il consiglio è composto da nove operaie e un'impiegata, più una rappresentante sindacale, Bianca, dipendente della Varazzi da decenni.

Le componenti del consiglio sono uno spaccato della forza lavoro femminile contemporanea nel nostro Paese: c'è la ventenne neoassunta e la veterana con figlia incinta; c'è l'immigrata africana, quella albanese concupita dal proprietario della fabbrica, quella che prende botte dal marito e la semitossica. Anche l'impiegata è un'ex operaia trasferita in ufficio da quando un incidente sul lavoro l'ha lasciata su una sedia a rotelle. Questa galleria di personaggi denuncia la matrice teatrale di 7 minuti, testo scritto (anche per il grande schermo) da Stefano Massini (la sceneggiatura è cofirmata da Michele Placido e Toni Trupia), che cerca di concentrare in quel pungo di figure femminili quasi tutte le problematiche che affliggono le donne in Italia. 

La costruzione drammaturgica segue la falsariga de La parola ai giurati, classico del '57 firmato (per la televisione) da Sidney Lumet di cui è stato realizzato un remake nel 2007 da Nikita Mikhalkov, 12. A Ottavia Piccolo, nei panni di Bianca, tocca il ruolo che fu di Henry Fonda, ovvero la voce della ragione che sa penetrare le coscienze di chi, reagendo di pancia, cerca invece la soluzione più immediata, come Angela, l'operaia napoletana con quattro figli cui dà la presenza "pesciarola" Maria Nazionale: ed è una scelta di casting azzeccata affidare quel ruolo a una cantante, perché la potente voce di Angela sembra voler costantemente sopraffare quella pacata di Bianca. L'altra cantante del cast è Fiorella Mannoia nei panni di Ornella, coetanea di Bianca e memore di un tempo in cui i diritti degli operai erano tutelati: la sua prova di attrice è notevole e inaspettata. Ambra Angiolini presta la sua incazzatura alla combattiva Greta e Violante Placido è un'insolita contabile dall'aspetto dimesso.

Nel cast anche alcune attrici francofone (7 minuti è una coproduzione italo-franco-svizzera): Clémence Poésy, Balkissa Maiga e la potente Sabine Timoteo, oltre ad Anne Consigny nei panni della manager responsabile dell'acquisizione della fabbrica. Impossibile non pensare, oltre a La parola ai giurati, a Due giorni, una notte dei fratelli Dardenne, ed è proprio al cinema dei Dardenne, ma anche a quello di Ken Loach e Stéphane Brize, che Michele Placido guarda nell'adattare per il grande schermo questa storia di dignità messa in pericolo dalle dinamiche economiche e da quella legge del mercato in nome della quale si compiono oggi le peggiori nefandezze. 7 minuti è ispirato ad una storia vera così come lo era Due giorni, una notte, anche se entrambe le vicende accadevano oltralpe. 

Ed è proprio perché possano accadere anche nel nostro Paese che Placido costruisce una storia di ordinaria indignazione, è per scuotere le coscienze, in particolare quelle dei più giovani, che imbraccia la cinepresa con l'aiuto di Arnaldo Catinari, che per una volta abbandona la sua fotografia luminosa per riempire di pieghe e di ombre i visi delle protagoniste, e della musica "esaltante" di Paolo Buonvino. Il montaggio serrato di Consuelo Catucci dà ritmo ad una storia che tiene il pubblico sulle spine come un courtroom drama. 7 minuti mostra il fianco nella sottolineatura eccessiva di alcune scene: l'esplosione di rabbia di Greta, la mozzarella "zinna" offerta in pasto ai dirigenti (perfetta in un film di Marco Ferreri, non in un lavoro "alla Dardenne"), il lancio della fede nel cestino. 

Ma resta un film importante perché mette sul piatto, sic et simpliciter, il tema dell'erosione dei diritti dei lavoratori, delle donne, di ogni essere umano in balia di quella compravendita selvaggia in cui le richieste della proprietà sono in realtà condizioni cui non si può dire di no. E si fa presto a perdere tutto se si abbassa la guardia, anche solo per sette minuti. 


LINK DI APPROFONDIMENTO :

La flessibilità del lavoro e la crisi dell’economia italiana

01/11/2016

Commemorazione dei defunti: muisca, poesia e parole


Ricordando tristemente coloro che mi hanno lasciato. Musica, poesia, parole, immagini.

Credo che nessuno muoia
credo che l’anima in realtà
divenga un’ombra
e al culmine del suo vagare
si adagi ai piedi
d’un fiore non visto.
Quei fiori gialli
di cui son piene
le campagne
quando fai ritorno a casa
e vorresti che lei
esistesse.
(Carlo Bramanti)