WORLD

WORLD

Translate

Cerca nel blog

20/01/2019

Chiamate agghiacciati fatte al pronto intervento PT.1

Ergastolo : la pena più micidiale

Ritengo l'ergastolo la pena più cruenta e micidiale che esista. Tra questa e la pena di morte sceglierei subito la seconda. Trascorrere tutta la vita dietro le sbarre in una cella di pochi metri (in che ambiente poi, in un carcere con tutto quello che ne consegue!) è una tortura eterna. Disgraziato chi viene condannato.

MYSTERIUM


lastampa.it

“Fine pena: mai”. Vivere senza speranza nelle carceri italiane

fabio poletti

Sui certificati di alcuni detenuti c’è una scritta che dice così: «Fine pena: mai». La leggono, accanto al proprio nome, uomini e donne che hanno commesso crimini terribili: spesso, che hanno ucciso. In Italia è aperto da tempo un dibattito. C’è chi dice che l’ergastolo è giusto perché se certi colpevoli sono condannati a stare in carcere tutta la vita, le loro vittime sono già sotto terra. Altri obiettano che l’ergastolo è contrario ai principi stessi della Costituzione, la quale prevede la rieducazione del reo e il suo reinserimento nella società.
In Italia esistono due tipi di ergastoli. C’è quello cosiddetto semplice, che dà la possibilità al condannato di uscire, se ha mostrato di meritarlo, dopo trent’anni; e dopo quindici, a metà pena, per qualche permesso. Millequattrocento nostri detenuti hanno invece l’ergastolo «ostativo»: il più duro, quello che non prevede, fino alla morte, né permessi né semilibertà. Ho incontrato tre ergastolani nel carcere di massima sicurezza Due Palazzi di Padova. Due di loro, Musumeci e Cataneo, hanno l’ergastolo ostativo; Dinja quello semplice. Ho chiesto loro se si può vivere anche così, apparentemente senza speranza.
Il mafioso: “Se penso al suicidio? Tutti i giorni”
Carmelo Musumeci, 58 anni, nato ad Aci Sant’Antonio in provincia di Catania, è stato condannato all’ergastolo ostativoper associazione mafiosa e omicidio. Ha avuto un solo permesso, di undici ore, nel 2011, quando si è laureato in legge con una tesi intitolata «La pena di morte viva». Su un braccio ha tatuato i nomi dei due nipoti. Mi riceve appoggiando sul tavolo un quaderno rosso con l’effigie di Che Guevara. «Sono dentro da 23 anni. Da qualche tempo partecipo al progetto con le scuole di Ristretti Orizzonti e per me è stato come aprire una finestra sul mondo. Incontrare i ragazzi fa fare i conti con la propria coscienza, ed è molto doloroso. I primi giorni non ce la facevo. Avevo perso l’abitudine a confrontarmi».
«Stare a marcire in cella ti fa sentire innocente di essere colpevole. Dici: anche chi mi ha messo dentro non rispetta le leggi. Così, ti autogiustifichi. Il carcere in Italia è una fabbrica di delinquenti. «Avevamo il privilegio, noi dell’alta sicurezza, di stare in celle singole. Mi ero costruito, in quello spazio, il mio mondo. Chi ha l’ergastolo si attacca a certe piccole cose. Adesso mi hanno messo in cella un altro cadavere». «Non sono uno stinco di santo. Ai miei figli dico sempre che ho sbagliato. Un giorno uno di loro due aveva quindici anni - fu trovato dalla mamma con uno spinello. Allora io gli dissi, per la prima volta nella vita perché non lo sapeva, che stavo scontando un ergastolo. Gli spiegai che anch’io avevo cominciato con piccoli reati. Lui si mise a piangere e mi abbracciò. Se sono stato un buon padre, è perché non ho nascosto le mie responsabilità». «Se penso mai al suicidio? Tutte le sere e tutte le mattine. Nella mia condizione, sarebbe da pazzi non pensarci. Chi si uccide qui dentro, è perché ama così tanto la vita che non sopporta di vederla appassire».
L’omicida: “Dentro da 20 anni La vita fuori ormai mi fa solo paura”
Nella piccola mensa del carcere - mangiare in compagnia è il privilegio concesso ai detenuti che lavorano, qui a Padova 120 su 920 - incontro un altro siciliano condannato all’ergastolo ostativo per omicidio. Si chiama Emanuele Cataneo, compirà 45 anni in novembre, è nato a Noto in provincia di Siracusa. «Sono stato arrestato ventidue anni fa, quando ero un ragazzo. A volte mi viene da dire che chi sta scontando la pena è un’altra persona rispetto a quella che è stata condannata». «Ho l’ergastolo ostativo perché al processo mi sono rifiutato di parlare. Se avessi parlato, sarei uscito il giorno dopo, con un premio di mezzo milione di euro e la protezione. Mi sono detto estraneo al reato che mi veniva contestato e ho deciso di non collaborare. La conseguenza è stata l’ergastolo».
«La mia scelta di ventidue anni fa ha provocato una condanna che si rinnova ogni giorno. Tutte le volte che chiedo un permesso, mi viene negato perché ventidue anni fa mi sono rifiutato di parlare. Che cosa vorrebbero da me oggi? Che parlassi per raccontare che cosa? Sono dentro da metà della mia vita e ormai, fuori, non conosco più nessuno. A Noto sono cambiate due generazioni». «Mi sono sempre professato innocente, ma dopo tanti anni qua dentro si ripensa agli errori che si sono fatti. Credo che quando una persona riflette veramente, difficilmente poi ripeterà gli stessi errori che ha commesso». «Da otto mesi lavoro all’interno del carcere, ed è una grande fortuna. Ma mi manca la speranza. Il pensiero di un domani fuori. Con l’ergastolo ostativo non ci saranno mai permessi né semilibertà. Mi dicono che devo pensare e vivere il presente, ma il presente è fatto anche di progetti, e io non posso averne». «Però ogni tanto guardo al di là della finestra e penso che la vita fuori mi fa paura, più di quella dentro».
Il lavoratore: “Sono in un buco nero, ma ho scelto una via bianca”
Equesta è la storia di Bledar Dinja, 38 anni, albanese. Fu arrestato la prima volta nel suo Paese a 15 anni. Nel 2002 gli è stato inflitto l’ergastolo in Italia per omicidio, nel 2003 è stato catturato. Dicono che era un pericoloso capobanda, e chi lo ha conosciuto qui in carcere racconta che fino a qualche anno fa faceva paura solo a guardarlo. Adesso i suoi occhi comunicano tutt’altro. Mi chiede di chiamarlo Giovanni: è il nome che ha scelto due anni fa, quando è stato battezzato qui all’interno del Due Palazzi. Il giorno del battesimo c’erano anche i suoi genitori, musulmani. Dissero: «Questo figlio era la nostra vergogna e ora è il nostro orgoglio perché ha trovato Dio. Non importa se è il Dio cristiano».
Bledar Giovanni lavora nella cucina e nella pasticceria con la Cooperativa Giotto. Siede di fronte a me a pranzo, nella piccola mensa. Si alza la bandana e mi fa notare che l’orecchio destro non c’è più: «Come vedi, non ho avuto una vita facile», dice. «Per tanti anni qui dentro non ho voluto vedere nessuno. Questi della cooperativa che fanno lavorare in carcere mi prestavano molte attenzioni, ma io diffidavo. E poi mi chiedevo: perché si interessano proprio a me? Io sono uno che ha fatto molto male, non merito niente, non sono degno di niente». «Con il passare del tempo ho capito che questi uomini non mi chiedevano nulla, e neanche si interessavano a quello che ho fatto. Per loro ero semplicemente una persona, e per loro ogni persona vale. Ho cominciato a lavorare al reparto biciclette, poi alla pasticceria. Ho cominciato anche a leggere la Bibbia, e i libri di don Giussani». «Non so se uscirò mai dal carcere, ma ho capito che nella vita si può finire in un buco nero o su una via bianca. E anche se sei chiuso dentro con un ergastolo hai sempre la possibilità di prendere la via bianca».