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03/04/2020

Da Torino a Palermo, l’Italia imbecille che se ne frega del Coronavirus (e ci mette tutti a rischio)





Un tempo vidi un video fatto dalla Polizia in cui stavano sorvegliando un palazzo sospetto probabilmente con un giro di droga. Fuori, a fare da piantone, si trovava un extracomunitario. Costui, per ingannare il tempo, si mise a ballare per conto suo.
"Guarda quello come balla!" - esclamarono dalla sala operativa dove tenevano tutto sotto controllo a telecamere nascoste, "balla adesso perchè dopo non ballerai più!".

Dopo poco, intervenne la squadra mobile, sequestrò tutta la droga ed arrestò la banda.
"Perchè non balli adesso? Facci vedere come balli!" dissero all'extracomunitario.

A tutti coloro che se ne superstrafegano della quarantena e delle leggi mostrando spavalderia, casomai venissero infettati e costretti in ospedale insieme agli altri, peggio ancora se in terapia intensiva con la mascherina dell'ossigeno, sarebbe da fargli lo stesso atteggiamento : "Siete contenti adesso? Fate adesso gli spavaldi!".


MYSTERIUM



globalist.it

Da Torino a Palermo, l’Italia imbecille che se ne frega del Coronavirus (e ci mette tutti a rischio)


È la prima domenica dalla stretta delle misure per il Coronavirus. Vivo a Roma, per fortuna, e la situazione è ancora relativamente sotto controllo. Nessuna coda ai supermercati, nessuna scena di panico. Le notizie scorrono sugli schermi e mantengono il livello di allerta alto, ma non abbiamo ancora il virus che preme contro le nostre finestre, che si annida negli spazi tra le nostre dita, che laviamo ormai una quarantina di volte al giorno. Ci si può ridere ancora sopra, tra le mura domestiche, dove per ammazzare il tempo in questa giornata di sole quasi primaverile si cucina, si legge, si cerca su Netflix una nuova serie.
Poi viene la sera, e di sera è peggio. Sopportabile, ma peggio. Esco per comprare le sigarette, perché si può ancora fare, e passo da una via molto nota per la movida. Aspettandomi, ingenuamente, di trovarla deserta.
Trovo i locali pieni. La distanza di un metro che dovrebbe essere obbligatoria per legge assolutamente ignorata. Si sta ammassati davanti agli Spritz e intorno ai funghi caloriferi come se fosse una domenica qualunque. Si parla del virus, ovviamente, ma come se fosse ancora lontano. Come se i 77 casi del Lazio fossero in un’altra dimensione, Milano la città di un altro paese. Si ride, si beve.
Torno furibondo, con più panico in corpo. E quasi contemporaneamente, il mio telefono inizia a vibrare: A Piazza Bologna, mi scrive un’amica, pieno di persone che fanno l’aperitivo come se nulla fosse. Ma lo hanno capito che situazione c’è? chiede. No, rispondo io. La gente è imbecille.
Realizzo che non è il virus a farmi paura, perché quella parte, la malattia, non l’ho ancora razionalizzata. Di fatto, noi che siamo fuori dagli ospedali non sappiamo ancora bene cosa comporta il Covid19. La immagino come una brutta febbre, come una fame d’aria che non si sazia, come un dolore alle ossa che ti costringe all’immobilità. Ma so, e le statistiche lo confermano, che si guarisce nella maggioranza dei casi. Dall’imbecillità non si guarisce mai.
Settimana scorsa nella mia città, Palermo, il gruppo Erasmus Palermo ha organizzato il ‘Coronavirus Party’, al mercato della Vucciria. Non è l’unico caso: sempre ieri sera, un’altra amica stavolta da Torino mi informa che un suo conoscente ha organizzato una festa, proprio per ‘protesta’ contro le misure per il Coronavirus. Ancora: una ‘influencer’ su Instagram sostiene che ‘Il governo vuole impedirci di abbracciarci’.
Riscopro in me una voglia dittatoriale che pensavo non mi appartenesse. Mi ritrovo a plaudere a Roberto Speranza quando afferma che saremo ‘intolleranti’ con chi non è responsabile. Giusto, penso io. Chiudeteli a casa. O in carcere, se non vogliono capirlo.
Questo menefreghismo diffuso è frutto, me ne rendo conto, dell’ottovolante informativo sul Coronavirus. Due settimane fa, quando è scoppiato il caso a Codogno, era ‘poco più di un’influenza’. #MilanoNonSiFerma, twittava Beppe Sala. Ora Milano si è fermata eccome. E si paralizzerà ancora di più, dal Governo non fanno praticamente nulla per nasconderlo. Sta succedendo il peggio, e sta succedendo in fretta. Ma mi rendo conto che c’è uno scollamento non solo politico ma sociale e culturale tra le istituzioni e la popolazione. Io, facendo questo mestiere, il rischio lo percepisco per come è giusto. Altri continuano a pensare che questa cosa non li toccherà.
Ma ci sono in Italia, per ora, 366 morti. Sono 366 famiglie che stanno soffrendo. Per necessità di cronaca rimangono un numero: ci sarà tempo dopo per sapere chi erano, per conoscerne le storie, quando saremo costretti a ricostruire sulle macerie che questo stramaledetto virus provocherà. C’è la città che è il nostro orgoglio nel mondo, Milano, unica oasi internazionale e interculturale nello sfacelo nazionalista da paesello che è diventata l’Italia negli ultimi anni, blindata, con le persone chiuse in casa per difendersi da un nemico invisibile. Ci sono persone anziane, fragili, che sono sole, magari impaurite; ci sono infermieri e medici, magari appena specializzati, che stanno combattendo una guerra per cui non erano preparati. E gli italiani non riescono a rinunciare agli aperitivi.
Non è un complotto contro le vostre vite. Non è un attentato alla vostra libertà. È una malattia. La gente muore. State a casa, stupidi imbecilli.



 
fanpage.it

Maria Cristina, infermiera a Milano: “Le mie lunghe notti con i malati di Coronavirus”



(Archivio Lapresse).
in foto: (Archivio Lapresse).
Tra le tante testimonianze che arrivano dagli ospedali italiani nei giorni dell'emergenza Coronavirus, c'è quella di Maria Cristina Settembrese. Da 11 anni infermiera infettivologa dell'ospedale San Paolo di Milano, il cui reparto di rianimazione sta ospitando prevalentemente pazienti Covid-19, come testimoniato anche dalle telecamere di Fanpage.it, ha raccontato il suo turno di notte in terapia subintensiva. Qui, tutti e 15 i letti disponibili sono occupati da contagiati dal nuovo virus. I più giovani hanno 48, 50 e 61 anni. "Non ho mai sentito nulla del genere in 30 anni di professione", ha detto la 53enne.
"Alle cinque e mezza del mattino – ha detto all'Agi -, quando gli animi si erano calmati e tutti dormivano, ho sentito come l'allarme di una bomba e ho visto una luce rossa che lampeggiava. Siamo corsi tutti a cercare di capire cosa fosse successo. Abbiamo acceso le luci e ci siamo accorti che eravamo in riserva di ossigeno. Tra noi, la rianimazione e altri due reparti dedicati al Covid si era consumato quasi tutto l'ossigeno dell'ospedale. Avevamo un'ora di autonomia. Mentre il medico di turno ci invitava a stare tranquille, io e le mie colleghe ci siamo guardate e abbiamo pensato chi rianimare per primo, nel caso. Per fortuna il rimedio c'era. Abbiamo chiamato l'ufficio tecnico e, nel giro di mezz'ora, sono arrivate due squadre. Hanno messo l'ossigeno nel pilone davanti all'ospedale che mi sono sempre chiesta a cosa servisse. I pazienti non si resi conto quasi di nulla, il casco che hanno in testa fa un rumore devastante per loro e anche per noi. E poi suona sempre e quando suona dobbiamo correre".
Il suo lo definisce il reparto purgatorio, tra quello della rianimazione, al piano di sopra, e quello sotto, riservato a coloro i quali hanno una prognosi più favorevole e vanno verso la dimissione. "Qualche giorno fa – ha ricordato ancora – abbiamo mandato in rianimazione un 42enne. Mentre gli stringevo la mano, lui mi ha implorata: ‘Ditemi che mi sveglio, ho due bambine a casa'. La mia mascherina si è riempita di lacrime. Nella mia vita da infermiera, ho pianto una volta a 18 anni e qualche volta quando sono mancati pazienti di lungo corso, a cui mi ero affezionata. Ora invece si piange tutti i giorni, soprattutto quando devi scrivere tre lettere: NCR. Non candidato alla rianimazione". Da quando c'è l'emergenza Coronavirus le notti in ospedale sono diventate più lunghe. "Io e le mie colleghe siamo una squadra e facciamo staffetta – ha sottolineato -. Una sta dentro e le altre due fuori, tutte bardate per proteggerci quando entriamo e poi quando usciamo ci si spoglia, è un continuo vestirci e spogliarci. Nelle stanze in isolamento non deve entrare nulla. Chi è dentro passa a chi è fuori le cose che sono infette, dalla flebo al bicchiere d'acqua. Non mangiamo, non dormiamo. Prendiamo integratori per tenerci su".
Maria Cristina ha tre sogni. "Avere più presidi per proteggerci in reparto e l'aiuto di altri colleghi, siamo al limite delle forze. Avere uno stipendio più alto per chi fa la mia professione, che ora ci sentiamo umiliate per quello che prendiamo rispetto alle nostre responsabilità. E, quando sarà  finito tutto, andare a Marsa Alam e davanti al mare dimenticare tutto". Ciò che però è certa di non poter mai dimenticare sarà lo sguardo dei malati: "E' l'unico modo per comunicare tra noi col volto coperto e loro sotto il casco. E riusciamo a dirci tutto. Quando vanno in crisi, gli tocco le gambe, perchè il resto del corpo è pieno di fili".